Gianni Rapetti
È stato un personaggio controverso, come tutti i grandi autocrati della storia, sempre pronto ad afferrare il proprio destino a mani nude. Amato da pochi, temuto dagli altri, sia nemici che amici, Federico era il protagonista indiscusso del suo tempo, al punto da meritarsi l'appellativo di Stupor Mundi.
Visitiamo, in rapida carrellata, alcuni luoghi teatri di momenti significativi di questa straordinaria esistenza.
Iesi
Il piccolo, ma ben fortificato, comune marchigiano è in subbuglio in quel dicembre 1194. L'imperatrice Costanza è giunta in città e, come se non bastasse, sta per concludere una faticosa gravidanza, evento eccezionale per una donna della sua età: a quarant'anni, nel XII secolo, si è già "vecchi".
I coscienziosi iesini cercano di fornire l'augusta partoriente di tutti gli agi possibili e pregano per una felice conclusione del parto. Sanno bene che l'imperatore Enrico VI sta aspettando ancora un erede dopo nove anni di matrimonio, e temono, in caso di inconvenienti, di attirare sulla città l'ira imperiale del figlio di un certo Federico Barbarossa, ben noto come Enrico il Crudele.
La piazza del mercato di Iesi viene sgombrata per far posto ad una grande tenda sotto la quale prende alloggio Costanza. Il 26 dicembre, giorno di S.Stefano, l'imperatrice dà alla luce un maschio che vorrebbe chiamare Costantino, in omaggio alla raffinata cultura bizantina adottata dalla sua famiglia: i normanni Altavilla, signori del Meridione d’Italia da quasi due secoli.
Nasce così, alla maniera dei khan mongoli o dei re goti, il futuro imperatore, proprio mentre sta per giungere la notizia dell'incoronazione a re di Sicilia di suo padre Enrico avvenuta il giorno prima, Natale, nel Duomo di Palermo. Il rude Enrico preferisce un nome più teutonico per il suo primogenito: così lo fa battezzare Federico Ruggero, in omaggio ai nonni Federico Barbarossa e Ruggero II d'Altavilla.
Ma la strada per ripercorrere le gesta di questi gloriosi avi è molto lunga: Enrico VI muore di febbri maligne il 28 settembre 1197 a Messina, lasciando pochi rimpianti e un piccolo erede "agnello fra i lupi".
Palermo
Molti sono coloro che si offrirebbero come tutori del piccolo orfano, e non certo per carità cristiana. I più interessati sono i nobili tedeschi, già scesi in Sicilia al seguito di Enrico VI. Ma anche il papa, Innocenzo III, grande fautore della superiorità della Chiesa su ogni potere secolare, mostra interesse per l'educazione del piccolo Federico.
Costanza, troppo lontana culturalmente dai rozzi baroni germanici, sceglie l'alleanza con il pontefice. E con la sua preziosa benedizione, un bimbo di nemmeno 4 anni viene incoronato re di Sicilia nel Duomo di Palermo: è il giorno di Pentecoste del 1198. È l'ultimo atto politico di Costanza che muore pochi mesi dopo. Innocenzo, del quale il re di Sicilia è vassallo, nomina un collegio di vescovi quali reggenti in attesa della maggiore età del piccolo monarca.
A Palermo Federico vive una triste infanzia quasi prigioniero nel castello di Maredolce. La leggenda vuole che il re bambino sfugga, di tanto in tanto, ai suoi tutori per scorrazzare con i monelli nelle strade della città. Il contatto con l'ambiente palermitano, caratterizzato dalla coesistenza di tre culture, l’occidentale cristiana, la bizantina e l'araba, sarà decisivo nella formazione di Federico.
In un clima reso fosco dai continui intrighi e dalle lotte che lo vedono pedina inerme nelle mani dei potenti, Federico diventa direttamente adulto. A quattordici anni viene proclamato maggiorenne. Otto mesi dopo sposa Costanza, figlia del re d'Aragona, vedova ventiquattrenne del re d'Ungheria.
Aquisgrana
La Cappella Palatina nell'antica capitale di Carlomagno è il miraggio di ogni aspirante alla corona imperiale. Federico vi entra da trionfatore nel luglio 1215. ma la regia dell'operazione è, ancora una volta, del pontefice. Innocenzo III ha, dapprima, sponsorizzato l'ascesa al trono imperiale del mediocre Ottone di Brunswick, pensando di poterlo tenere agevolmente sotto controllo. Tuttavia, quando Ottone si cala troppo diligentemente nel ruolo di imperatore e comincia ad occuparsi di politica italiana, Innocenzo non esita a scomunicarlo, a contrapporgli il giovane Federico come candidato all'Impero, e a scatenargli contro il re di Francia, Filippo Augusto. Quest'ultima si rivela la mossa decisiva. I cavalieri francesi sbaragliano quelli tedeschi a Bouvines, il 27 luglio 1214. È un gran giorno per la Francia e per il giovane Hohenstaufen. La sera stessa, Filippo Augusto invia a Federico l'aquila dorata rinvenuta dai suoi uomini tra i resti della tenda di Ottone, abbandonata dagli imperiali in rotta.
Un anno dopo, dicevamo, Federico è ad Aquisgrana, sul punto di essere incoronato Re dei Romani, ultimo diaframma che lo separa dal titolo imperiale. Nella penombra della cripta sotto la Cappella Palatina, prende parte ad una cerimonia di alto valore simbolico. Davanti a pochi eletti, la salma del primo imperatore, Carlomagno, viene riesumata e i "sacri" resti traslati in un'urna d'argento riccamente decorata con le figure degli Apostoli. Lo stesso Federico sigilla la preziosa tomba. Al termine del rito, risaliti nella cappella, ha luogo l'incoronazione. Sigfrido, legato del pontefice e arcivescovo di Magonza, pone sul capo di Federico il diadema regale. Alla fine dell'incoronazione un piccolo fuori programma: il giovane re strappa la croce dalle mani dell'attonito arcivescovo e promette solennemente di recarsi in Terrasanta da crociato, continuando l'impresa che il nonno Barbarossa aveva abbandonato annegando in Cilicia, sulla strada per Gerusalemme, 25 anni prima.
Chi immaginava il nuovo imperatore come un giovane inesperto e indeciso, in primis papa Innocenzo, è servito.
Napoli
Uomo di grande cultura e di vasti interessi, Federico è sensibile al problema dell'istruzione. Avverte la mancanza in Italia meridionale di una struttura universitaria in grado di competere con quelle del nord Italia e del resto d'Europa.
Uno spirito moderno sta alla base della decisione di fondare un'università: i migliori cervelli del regno devono formarsi al suo interno e, soprattutto, fuori dall'ala protettiva della Chiesa che, all'epoca, deteneva il monopolio sull'istruzione. Un'istruzione laica, come profondamente laico è Federico.
Il luogo scelto è Napoli, "dove i costumi sono per tutti benevoli e dove esiste facilità di trasporti, per terra e per mare, di tutto il necessario alla vita degli uomini". La vicinanza con la celebre Scuola Medica di Salerno è un ulteriore vantaggio.
Nell'atto di fondazione (riportato nella Chronica di Riccardo di San Germano), stilato a Siracusa in data 5 giugno 1224 e indirizzato a tutte le autorità civili e religiose del Regno di Sicilia, Federico promette agli studenti condizioni vantaggiose: presenza di tutte le discipline e di famosi magistri (il latinista Anello da Gaeta, il filosofo Arnaldo Catalano, i giuristi Benedetto d’Isernia e Roffredo di Benevento), convenzioni con gli alberghi per "una pensione di due once d'oro senz'altri carichi", prestito dei libri di testo. Il freddo Federico si abbandona anche a considerazioni paterne: la presenza di un'università nel regno libera i giovani dalle insidie di lunghi viaggi all'estero e li mantiene "sotto gli occhi dei loro genitori", aspetto non secondario vista la "vivacità" degli ambienti studenteschi di quel tempo.
Per tutti questi motivi, l'imperatore intima "sotto pena delle persone e delle cose, che nessuno osi uscire dal Regno per motivi di studio né che entro i confini del Regno osi apprendere o insegnare altrove".
Quello di Napoli rappresenta il primo tentativo di contrapporre all'istruzione gestita dagli ordini monastici un'istruzione laica. Laica, ma non atea: San Tomaso d'Aquino, Padre della Chiesa, studia proprio nell'ateneo napoletano.
Acri
Acri è l'ultimo avamposto della Cristianità rimasto in Terrasanta all'inizio del Duecento. Gli Arabi potrebbero spazzare via facilmente questa fragile testa di ponte crociata. Non sono trattenuti da spirito di tolleranza o dalla possente cinta muraria, ma dalla presenza dei mercanti veneziani, pisani e genovesi: gli unici infedeli con i quali riescono ad intendersi perfettamente. Almeno finché non conoscono il “re dei principi”.
Federico salpa da Brindisi il 28 giugno 1228 con cinque navi. La moglie bambina (14 anni) Jolanda di Brienne, morendo gli ha lasciato due doni: un figlio maschio, Corrado, e il titolo di re di Gerusalemme, appartenuto al padre di lei, Giovanni.
Caso unico nella storia delle Crociate, Federico sbarca ad Acri macchiato dalla scomunica inflittagli da papa Gregorio IX per aver ritardato eccessivamente la partenza. L’imperatore non sembra avere intenzioni molto bellicose nei confronti degli arabi che ammira. Anzi, viene subito contattato dal sultano Malik al-Kamil, bisognoso di alleati per contrastare il fratello, Malik al-Mu’azzam. Federico pensa, invece, di sfruttare questa situazione per trovare un compromesso diplomatico che gli consenta di adempiere al voto di crociata senza combattere.
Le trattative tra i due vanno avanti fino alla fine dell’anno. Nel febbraio 1229 viene firmato un accordo. Federico ottiene la città di Gerusalemme senza colpo ferire, a patto che le mura vengano smantellate e che le moschee sacre restino in mani musulmane. I cristiani avranno libertà di accesso dal mare lungo una via protetta dal possesso di alcuni villaggi dal nome insignificante per gli islamici: Nazareth e Betlemme. Il tutto per un periodo, rinnovabile, di dieci anni.
I falchi dalle due parti inorridiscono, è inconcepibile venire a patti con l’infedele. Per i nemici cristiani di Federico l’ulteriore conferma di trovarsi di fronte all’Anticristo. E chissà come reagirebbero se conoscessero gli episodi che fonti arabe riportano riguardo al pellegrinaggio dell’imperatore a Gerusalemme, intrapreso subito dopo la firma della tregua, con il beneplacito del sultano e la scorta dei fedeli Cavalieri Teutonici.
Mentre visita la moschea di al-Aqsa, vede un prete cristiano che tenta di entrare con il Vangelo in mano e lo scaccia violentemente: “Cosa ti ha condotto qui? Se uno di voi torna a entrar più qui senza permesso, gli caverò gli occhi!”. Il mattino dopo, il “Re dei Franchi”, come lo chiamano gli arabi, si lamenta con il funzionario del sultano che attende al suo soggiorno perché questi ha ordinato di sospendere la preghiera serale del muezzin come riguardo per l’ospite cristiano. “Il mio maggiore scopo nel pernottare a Gerusalemme era di sentire l’appello alla preghiera dei muezzin e la loro lode a Dio durante la notte” è la spiegazione di Federico. Curiosamente il giudizio dei musulmani sullo Stupor Mundi coincide con quello dei cristiani: “... era evidente dai suoi discorsi che era un materialista, che del Cristianesimo si faceva semplice gioco”1.
Il pellegrinaggio nella Città Santa dura un paio di giorni. Federico riparte il 25 marzo 1229 per Acri: ben altri problemi lo attendono in Italia.
Melfi
Il problema principale per un monarca medievale è personificato dai baroni. Per costoro il re è un primus inter pares e si comportano di conseguenza. La fedeltà alla corona è sempre condizionata da qualche contropartita. Ogni barone, infine, è re nelle proprie terre, costituendo un vero e proprio stato nello stato, con leggi e consuetudini autonome.
La grande questione del Basso Medioevo sarà la lotta intrapresa dai monarchi europei per concentrare tutto il potere nelle proprie mani, eliminando le giurisdizioni indipendenti, sia feudali che comunali, condizione necessaria per l'evolversi verso uno stato moderno.
Alcuni sovrani usano un mezzo indiretto: i tribunali regi i quali, contrapposti a quelli addomesticati dal signorotto locale, garantiscono l'applicazione di norme uniformi in tutto il regno. Questo sistema viene adottato in Francia e Inghilterra, dove il re non ha la forza di sopportare uno scontro aperto con i potenti vassalli.
Ma Federico è l'imperatore, non un primus inter pares, nessun potere è superiore al suo. A Melfi, nel settembre 1231, promulga il Liber o Lex Augustalis, una raccolta di leggi che passerà alla storia con il nome della città lucana. Le 217 norme, o costituzioni, sono frutto di due soli mesi di lavoro di una commissione presieduta da Pietro delle Vigne, il fidato Gran Cancelliere dell’imperatore. Questo corpo legislativo rappresenta una svolta nella cultura giuridica europea, finora ispirata al diritto feudale di origine barbarica e al diritto canonico della Chiesa. Il Liber è il primo codice medievale ispirato esplicitamente ai principi del diritto romano, in particolare quello di età imperiale. L’ammirazione per la civiltà romana, coltivata negli ambienti della laica corte federiciana, è una novità nel panorama culturale dell’Europa medievale, decisa nel denigrare i mondi non cristiani. Federico invidia il potere assoluto e divino degli imperatori romani e giunge a farsi ritrarre sulle monete auree, che chiama significativamente augustali, abbigliato come un antico Cesare.
Lo scopo delle costituzioni di Melfi è quello di imbrigliare il potere dei baroni del regno. Anche qui la strada percorsa è quella della normalizzazione della procedura giudiziaria. Vi si trovano norme che tutelano la libertà personale, anche quella dei servi della gleba, e che permettono ai vassalli minori di appellarsi al re contro i baroni. Decreti aggiuntivi del 1233 concedono ai rappresentanti delle città di sedere nei parlamenti accanto a nobili e clero. Il disegno è chiaro: far crescere una classe borghese che bilanci l’influenza dell’aristocrazia e dell’alto clero e dia luogo ad uno sviluppo economico pari a quello dell’Italia settentrionale. Federico sembra indirizzato verso un liberismo ante litteram quando riduce le barriere doganali interne o quando favorisce le attività dei mercanti, anche se provenienti da città nemiche come Genova e Venezia. La politica economica federiciana avrebbe successo se la pressione fiscale non crescesse di continuo. Aumentano le spese per mantenere un fidato esercito mercenario, che riduca la forza militare della nobiltà, e un apparato burocratico efficiente. Lo stato diventa il primo soggetto economico del regno: detiene ricchi monopoli (sale, ferro, seta, macellazione, trasporti, cambio valute) e possiede grandi estensioni di terra. Secondo alcuni storici il fisco federiciano affosserà lo sviluppo del capitalismo, con conseguenze definitive per l’economia del Mezzogiorno.
La Lex Augustalis sembra ispirata da idee avanzate: abolizione delle ordalie nei processi, apertura di procedimenti penali d’ufficio per taluni reati gravi, non punibilità dei minori, riconoscimento dei diritti della donna nelle successioni. Ma non bisogna farsi ingannare. Rimangono in vigore tortura e pene corporali durissime. Federico cerca unicamente il potere assoluto, limitando i diritti politici delle classi sociali in grado di ostacolarlo.
Castel del Monte
I limiti organizzativi di uno stato feudale non consentono al sovrano di risiedere stabilmente in una capitale. Il re e la sua corte si spostano continuamente da un luogo all'altro del regno sia per ribadire l'autorità regia, sia per consumare in loco le risorse del territorio destinate alla corona come tributi.
Federico ama talmente la Puglia da sentirsene figlio: Puer Apuliae è un’altro dei suoi numerosi appellativi. Federico fa costruire diverse residenze in Puglia dopo il 1230. Un palazzo sorge a Gioia del Colle su un preesistente castello normanno, fortezze a Lucera e Barletta, castelli a Foggia, Conversano, Altamura, Minervino Murge, Lagopesole e Fiorentino.
Castel del Monte, a pochi chilometri da Andria, rimane l'esempio più affascinante dell’architettura federiciana. Costruito su una collina che domina il paesaggio delle Murge, tutto ulivi e viti, nasce come casino di caccia, probabilmente intorno al 1240.
L’edificio è un ottagono perfetto, circondato da 8 torri, una per vertice, anch’esse ottagonali, fusione armonica di elementi gotici, romanici, bizantini, arabi e dell’architettura militare crociata. Vi si accede attraverso un portale maestoso, capolavoro nel capolavoro, che immette nel cortile interno. Ognuno dei due piani del castello comprende otto stanze di dimensioni uguali, una per lato, tutte con il soffitto a volta. Nelle torri trovano posto soldati, falconieri e, in apposite stanze, gli amati rapaci dell’imperatore. La camera preferita da Federico è quella posta al secondo piano in corrispondenza del portale: da lì può scorgere in lontananza il mare, e ammirare i falconi che volteggiano intorno al castello in attesa della caccia.
La corte itinerante dello Stupor Mundi impressiona i contemporanei con il suo esotismo. Attratto dalla cultura araba, ancora fortemente radicata in Sicilia, Federico, come un califfo, si circonda di un serraglio di animali esotici e di un harem, intorno al quale fioriscono maliziose leggende.
La corte è anche luogo di elaborazione di una raffinata produzione poetica, la prima di un certo rilievo scritta in lingua volgare italiana.
Il poliedrico imperatore si interessa anche di filosofia, anche se in modo piuttosto superficiale. Viene attratto da quesiti quali la distanza tra cielo e terra, o l’esatta ubicazione dell’Inferno. Per risolvere questi interrogativi indirizza questionari a noti maestri di filosofia, a Michele Scoto, il filosofo-astrologo di corte, e perfino a dotti arabi.
Ma è la scienza la grande passione di Federico. Anche in questo caso è determinante l'influenza della cultura araba, all'epoca molto più avanzata di quella europea in campo scientifico. Da vero laico razionalista, praticamente un ateo per i contemporanei, non si accontenta delle vaghe spiegazioni della scienza cristiana che tende a liquidare i fenomeni naturali incomprensibili come interventi divini o demoniaci. Un'innata curiosità, e la mancanza di scrupoli di qualche scienziato di corte, lo portano a cercare risposte scientifiche attraverso la sperimentazione diretta, procedimento lodevole se non fosse per l'uso, un po' troppo frequente, di cavie umane, ricordato con raccapriccio dai cronisti.
Tipica espressione della cultura feudale è l'attività venatoria. Viene praticata dall'aristocrazia come sublime esercizio in preparazione alla guerra. La caccia dei nobili si distingue da quella praticata dai plebei per il rapporto cavalleresco che viene instaurato con la preda: il cacciatore aristocratico aborrisce trappole, reti e altri sistemi subdoli di cattura. In questa visione paritetica di cacciatore e cacciato, la falconeria, ove il confronto avviene tra due animali, è la più nobile tra le specialità venatorie. Federico ne è un vero cultore. Il suo falconiere Rinaldo d’Aquino è uno dei personaggi più importanti della corte. La passione per i rapaci e l'esperienza accumulata durante le battute nelle campagne pugliesi, vengono riversate da Federico in una celebre opera, il De arte venandi cum avibus, l'Arte di cacciare con gli uccelli, della quale si conserva uno splendido esemplare miniato alla Biblioteca Apostolica Vaticana. Nei 6 volumi che la compongono, oltre alle nozioni per l’addestramento dei rapaci alla pratica venatoria, lo Stupor Mundi descrive minuziosamente le diverse specie di uccelli, comprese abitudini e fisiologia. Insomma un vero e proprio trattato di storia naturale che testimonia il grande amore che Federico, deluso dagli uomini, nutre per la Natura.
Cortenuova
La Lega Lombarda è l'irriducibile avversaria degli imperatori tedeschi fin dai tempi di Federico Barbarossa. Milano, Brescia, Parma, Piacenza e altre ricche città, animate da spirito indipendentista, si schierano dalla parte del papa, ma solo in quanto nemiche dell’Impero. Solo Pavia e Cremona, spinte dall’odio verso Milano, rimangono fedeli all’Impero.
L’esercito della Lega evita lo scontro aperto, non avendo una cavalleria comparabile a quella imperiale. Così le campagne si risolvono in uno stillicidio di manovre e assedi. Data la superiorità acquisita dall’architettura militare difensiva le città cadono solo per fame o, più facilmente, per l’azione della fazione ghibellina dall’interno.
Nell’autunno 1237, Federico vorrebbe stringere d’assedio Brescia, ma viene dissuaso dalla presenza di un esercito della Lega stanziato presso Manerbio, e dall’inverno incombente. Tuttavia fa un tentativo per cercare uno scontro campale adottando uno stratagemma. Il 23 novembre annuncia il suo ritiro nei quartieri invernali, congeda i contingenti delle città ghibelline, ritenuti poco affidabili, e si mette in marcia verso Cremona. L’esercito della Lega, soddisfatto, si dirige verso per Milano per acquartierarsi. Mentre il grosso dell’armata imperiale prosegue la marcia, Federico si ferma a Soncino con 10.000 uomini tra cui i cavalieri mercenari tedeschi e gli arcieri saraceni. Quindi, procedendo a marce forzate, aggira la lunga colonna lombarda e la precede sbarrandole la via per Milano. È il 27 novembre 1237: la manovra di Federico è riuscita perfettamente. La cavalleria della Lega, che marcia in testa alla colonna, viene spazzata via paralizzata dalla sorpresa. La fanteria, che copre la retroguardia, si stringe attorno al Carroccio, simbolo della libertà comunale, rimasto indietro nel villaggio di Cortenuova. Qui la cavalleria tedesca carica ripetutamente, finché, stremata dai combattimenti e dalla precedente marcia, si ferma al sopraggiungere dell’oscurità. Durante la notte i fanti leghisti riescono a fuggire lasciando sul campo tutte le salmerie e il Carroccio dal quale riescono a salvare solo lo stendardo e la croce.
Per la Lega è un colpo durissimo: la cavalleria è praticamente distrutta, più di mille i prigionieri, dei quali 800 sono i milanesi e tra questi lo stesso Podestà di Milano. Il Carroccio, come un illustre prigioniero, viene inviato a Roma ed esposto in Campidoglio, “super columnas ad perpetuam memoriam”, come monito ai nemici dell’Impero, soprattutto al Papa.
La disfatta di Cortenuova, almeno inizialmente, sembra sfaldare il fronte della Lega. Le stesse Milano e Piacenza ora sono disponibili a trattare. Ma l’intransigenza dell’imperatore, che pretende una resa incondizionata, accende l’orgoglio dei comuni lombardi.
Federico lo può constatare quando decide di assediare Brescia nell’estate del 1238. La città, difesa da un oscuro ingegnere spagnolo, Calamandrino, oppone una fiera resistenza. Atti di autentica barbarie si consumano da ambo le parti. Ai prigionieri legati alle macchine da assedio o usati come proiettili, i bresciani rispondono usando gli imperiali catturati come scudi sulle mura. L’inverno si avvicina e l’assedio continua senza risultati. Federico decide di ritirarsi. Il 9 ottobre fa bruciare le macchine da assedio e ripiega su Cremona. Il trionfo di Cortenuova è già dimenticato.
Parma
L’aquila imperiale sta per terminare il suo volo. Federico, nel giugno 1247, è in viaggio verso la Francia, dove spera di stringere preziose alleanze, quando viene raggiunto dalla notizia di una nuova sconfitta. I parmensi seguaci del papa, già in esilio, hanno ripreso il controllo della città il 16 giugno, massacrando i “collaborazionisti” amici dell’imperatore. Federico giura vendetta: farà radere al suolo l’infedele città di Parma e cospargerà di sale le sue rovine.
Chiama a raccolta tutti i suoi alleati e, nonostante il fronte imperiale si stia rapidamente sgretolando, riesce a radunare sotto le mura parmensi un esercito “multinazionale” di 38.000 uomini, che crea anche qualche problema di vettovagliamento. Con lui sono i figli Enzo e Manfredi, e il fedele Ezzelino da Romano, signore del Veneto.
Poco a sud della città assediata, sul luogo dove sorge l’accampamento imperiale, Federico ordina la fondazione della “nuova Parma”: si chiamerà Vittoria. Mentre la nuova città comincia a crescere, in legno tra le tende, diventando per qualche mese la capitale dell’Impero, l’assedio si trascina stancamente per tutto l’autunno. Federico non stringe i tempi, non vuole ripetere l’errore commesso a Brescia 10 anni prima. Parma cadrà stremata dalla fame.
Il 18 febbraio 1248, l’imperatore, in sella al suo cavallo preferito, l’arabo Dragone, sta cacciando con Manfredi nella campagna circostante, a circa cinque chilometri dal campo. È sicuro che la città stia per cadere, duramente provata da un inverno di assedio. Ne sono convinti gli stessi parmensi i quali tentano un’estrema, disperata sortita. In quattromila, brandendo uno stendardo con la Vergine, escono dalle mura e si lanciano contro la palizzata che circonda la città-accampamento sorprendendo i nettamente gli assedianti. I pochi edifici lignei e le tende prendono fuoco rapidamente, mentre gli imperiali vengono massacrati. Quando Federico, udito il frastuono della battaglia, giunge sul posto la tragedia è compiuta. La sua Vittoria brucia, non vi è più traccia né del tesoro nè dell’harem imperiale, i suoi uomini giacciono mutilati nel fango. Tremila scampati al massacro sono condotti prigionieri in Parma e fatti sfilare per le vie preceduti da un buffone che veste i paramenti imperiali catturati.
Lo stesso Federico scriverà: ”Varie sono le vicende della Fortuna: ora abbassa gli uomini, ora li esalta; e spesso alcuni blandisce innalzando che poi alla fine abbatte, colpendoli e flagellandoli di ferita insanabile”.
Fiorentino
Il 1249 è l’anno più difficile per l’imperatore. In febbraio fa arrestare e torturare Pietro delle Vigne, consigliere e amico fidatissimo, probabilmente scoperto ad arricchirsi con le finanze regie. In maggio il figlio Enzo viene catturato dai ribelli bolognesi. Rivolte scoppiano in ogni regione dell’Impero. Sembra proprio la fine.
Qualche segno di ripresa viene l’anno dopo dalla Germania, dove un altro figlio, Corrado, sconfigge l’antirè appoggiato da papa Innocenzo IV, Guglielmo d’Olanda. L’aquila potrebbe rialzarsi in volo.
Nel dicembre 1250, Federico si trova a Foggia, una delle residenze preferite. Soffre per le febbri intestinali che lo tormentano già da tempo. Nonostante ciò decide di spostarsi a Lucera, la roccaforte più fedele, colonia dei saraceni siciliani, protetta dall’imperatore. Dopo qualche giorno vuole effettuare una battuta di caccia nei dintorni di Lucera, ma per l’aggravarsi delle febbri deve fermarsi nel suo castello di Fiorentino.
Sul letto di morte ripartisce i suoi domini tra i figli, illudendosi che le sue volontà vengano rispettate. L’ateo Federico muore da cristiano? Sicuramente riceve l’assoluzione dall’arcivescovo di Palermo. Una leggenda, nata in ambienti francescani, narrerà che l’imperatore, in punto di morte, avrebbe pronunciato le stesse parole del pubblicano della parabola omonima: “O Dio, abbi pietà di me che sono un peccatore!”. Dante, comunque, collocherà Federico tra gli epicurei dell’Inferno (X canto), segno di scarsa fiducia in una conversione tardiva dell’imperatore.
La morte del cinquantaseienne Stupor Mundi lascia increduli amici e nemici. I Guelfi pensano a una mistificazione e temono che l’imperatore non sia morto, ma stia tramando nell’ombra per ritornare più forte di prima. I Ghibellini, più che in una resurrezione, confidano nei figli di Federico. In Germania i trovatori canteranno il mito dell’imperatore che, ora addormentato con i suoi cavalieri, si risveglierà non appena la patria tedesca si troverà in pericolo. Il mito è così forte che, ancora 40 anni dopo la morte, ci saranno ciarlatani che si spacceranno per Federico, finendo invariabilmente arsi sul rogo come eretici visionari.
Ma se dopo 8 secoli ancora studiamo e dibattiamo la figura e l’opera di Federico II, vuol dire che il mito dello Stupor Mundi, il primo tedesco che si innamorò del nostro paese, è ancora vivo.
BIBLIOGRAFIA essenziale
Abulafia David, Federico II un imperatore medievale, Torino, Einaudi, 1990
Schipa Michelangelo, L’Italia e la Sicilia sotto Federico II,
in Storia del Mondo Medievale, vol. V, Cambridge,
Cambridge University Press, 1980
Momigliano Eucardio, Federico II di Svevia, Milano, Corbaccio, 1937
Pepe Gabriele, Lo stato ghibellino di Federico II, Bari, Laterza, 1938
1 Le fonti arabe sono citate in Francesco Gabrieli, Storici Arabi delle Crociate, Torino, Einaudi, 1957