Fra la tregua sottoscritta da Federico I di Hohenstaufen a Venezia nel
1177 e poi a Costanza nel 1183 e l’avvento di Federico II, l’Italia visse
una intensa e lunga stagione di rivendicazioni autonomistiche, sullo sfondo
di una crescita enorme della potenza della Borghesia; della consistente
circolazione monetaria; del rinnovamento della politica agraria e delle
aspre rivalità fra Città e Comuni minori, teatro di battaglie durissime fra
fazioni interne ed esterne alle mura.
L’Imperatore Enrico VI aveva riconosciuto il Comune di Firenze e la sua
giurisdizione sulle zone limitrofe. Tale sorta di tolleranza s’era posta
premessa alla formazione della Lega Toscana: Firenze stessa, Siena, Lucca,
Prato e San Miniato, nel novembre del 1198, s’erano costituite sodali,
affermando il diritto di emancipazione da re e da Imperatori, se non previo
consenso papale ma, sostanzialmente, mirando a sganciarsi anche dalla
interferenza della Chiesa.
La vicenda aveva provocato ripercussioni anche in Lombardia contro la
quale, nel 1213, Federico II avrebbe pronunciato un bando esteso anche a
Lodi e a Piacenza. Una circostanza inasprita quando, nella Pasqua del 1226,
nel corso della Dieta di Cremona, i Comuni Lombardi, paventando l’ipotesi
della restaurazione imperiale, assieme a città del Piemonte, del Veneto e
dell’Emilia, ridettero vita alla Lega del 1167 ricevendone una serie di
sanzioni contro le quali valse solo l’azione mitigante di Papa Onorio. La
tregua, tuttavia, fu interrotta dalle Costituzioni Melfitane ad esito delle
quali Federico II fu dichiarato, da Papa Gregorio IX, “ ...persecutore della
Chiesa e distruttore delle pubbliche libertà...”, mentre il fronte di
ribellione contagiava la Sicilia risolvendosi nella repressione applicata
dall’Imperatore a Centuripe e a Montalbano.
Il ventisei dicembre del 1194 in Jesi, città della Marca anconetana,
nacque Federico II: figlio di Enrico VI di Hohenstaufen e di Costanza
d’Hauteville. Essendo egli venuto al mondo nel giorno successivo al Natale,
i sostenitori della politica staufica vissero la sua nascita come un
prodigioso evento e lo indicarono secondo solo a Cristo. Per gli ambienti
guelfi, al contrario, egli fu considerato sempre l’erede del temuto
Barbarossa e dell’odiato Enrico VII: empio e dissacratore, fino ad incarnare
l’Anticristo. Così, durante la sua primissima infanzia, se da una parte
l’esaltazione della sua attesa fu confermata, dall’altra furono seminate le
premesse a quella campagna di odio che drammaticamente concluse il suo
ultimo tratto di vita.
Pietro da Eboli, autore del Liber ad Honorem Augusti -un poemetto di
ottocentottantatre distici ed otto esametri - nelle Particulae LXIII e
LXIV del De Rebus Siculis Carmen, ne profetizzò le doti di statista, di uomo
e di fondatore della aurea Renovando Temporis Etas.
Goffredo da Viterbo, già notarius di Corrado III e diplomatico di
Federico I e di Enrico VI, ritenne che egli incarnasse il grande Cesare,
destinato a segnare i tempi:
« ...Concipit et peperit Imperatrix natum;
Tenet nunc Apuliam, habet Principatum,
Est futurus Cesar, sic est vaticinatum,
Habebit Imperium, Regnum, Monarchatum...»
Il bretone mago Merlino svelò oscuramente il miracolo e, ad un tempo, la
calamità della sua presenza.
La sua visione escatologica della storia, indusse l’abate calabrese
Gioacchino da Fiore a presagire in lui la bestia venuta a corrompere e a
devastare il mondo: «...Quod uxor sua gravida erat, quae adhuc gravedinem
nullam sentiens, de daemone erat praegnans...»
Fra Salimbene da Parma, il mistico dell’Alleluja, lo descrisse «...
scaltro, libertino, malvagio e collerico. Sapeva talvolta dar prova di
solide capacità e questo accadeva quando voleva esibire la sua munificenza e
nobiltà. Allora diventava amabile, lieto, pieno di grazia e di nobili
aspirazioni. Leggeva, scriveva, cantava e componeva melodie. Era bello e ben
proporzionato, sebbene di non troppo alta statura...».
Il benedettino anglosassone Parisiensis, al secolo Matteo da Parigi, lo
definì il più grande tra i principi della terra: Stupor mundi et immutator
mirabilis.
Il cronista Nicolò Jamsilla lo rappresentò «...uomo di cuore
magnanimo... che seppe temperare la sua sensibilità con la sapienza di cui
fu assai ricco, così che mai nel far qualcosa si lasciò trascinare
dall’impeto, ma in tutto seguì i suggerimenti di una matura ragione...».
Lo scrittore arabo ‘Abu ‘Al Fadâ testimoniò che «...l’imperatore era
generoso, vago di filosofia, logica e matematica, e amava i musulmani,
essendo stato educato nell’isola di Sicilia, dove la più parte della
popolazione è musulmana...».
Jacob Burckhardt scrisse di lui come del «... Primo uomo moderno assiso
sul trono...».
Friedrich Nietzsche lo definì «... qualcosa di umano, di troppo umano…
qualcosa al di là del bene e del male», dopo aver assegnato parole dure alle
crociate «...alta pirateria, niente di più!...».
Le anticipazioni favorevoli alla sua nascita, comunque proposta
prodigiosa, si fanno già risalire alla quarta egloga delle Bucoliche di
Virgilio: «...I rapporti di Federico con Pier delle Vigne vengono paragonati
a quelli di Augusto con Virgilio... e l’elogio rimonta a un verso di
Virgilio: -... E con Giove regge Cesare l’impero-... Pier delle Vigne tenne
un’orazione al popolo di Vicenza annunciando il prossimo arrivo
dell’imperatore e, non per caso ma neppure per decisione concertata, pose
alla base del suo discorso quel versetto d’Isaia che annuncia la venuta del
Salvatore, e che ritorna nel Vangelo di Natale: -Il popolo che vaga nelle
tenebre, vede una gran luce e chiaro si fa tra quelli che abitavano nella
terra oscura...-» (E. Kantorowicz: Federico II imperatore).
Quelle, invece, destinate ad atterrire il popolo e ad alimentare le
calunnie che la Chiesa gli rivolse contro, si vogliono già contenute
nell’annuncio dell’Apocalisse.
Al di là delle profezie, resta inalterata la certezza che ancora a
settecentocinquanta anni ed oltre dalla sua morte, anche il giudizio degli
storici contemporanei è controverso: se Gabriele Pepe lo avvertì portatore
di modernità culturale e politica, Thomas Van Cleve, con pari autorevolezza,
lo assunse conservatore. Se David Abulafia lo censura, Norbert Kamp conferma
che il suo governo si propose modello per gli altri Stati europei. Se Régine
Pernoud lo riduce ad un sovrano di periferia, Franz Kampers lo definisce
battistrada del Rinascimento.
Quel ventisei dicembre del 1194 fu un giorno di particolare importanza
per la storia italiana: la notizia di quella nascita, lungi dall’essere
festeggiata, promosse una accanita campagna antisveva: i lealisti siculi,
infatti, fecero dell’erede un oggetto di dileggio ponendo in dubbio anche la
sua paternità e veicolando la voce che il bimbo fosse il frutto di una
relazione adulterina dell’Imperatrice con un beccaio jesino.
Enrico VI, per consolidare il potere della prestigiosa casata, dichiarò
solennemente l’ereditarietà della corona ma, al fine di evitare reazioni dei
grandi feudatari, si limitò alla sola elezione reale del piccolo.
L’imprevedibile morte, forse esito di un complotto contro la sua sanguinaria
tirannide, gettò il regno nello scompiglio più drammatico e Costanza, di
fatto assumendosi il solo ruolo di regina reggente, si dette ad amministrare
un’isola squassata da lotte fra fazioni normanne e tedesche mentre anche in
Germania s’apriva quel pesante scontro di successione risoltosi con un
regicidio: l’assassinio del giovane Filippo di Hohenstaufen.
Riconosciuta la signoria feudale di Papa Innocenzo II e rinunciando per
l’infante ai diritti imperiali, Costanza concluse un concordato con la
Chiesa che ridusse i diritti sovrani nella nomina dei vescovi ad un semplice
atto di assenso, in aperto contrasto con le prerogative lungamente
esercitate dai suoi avi. Nel 1198, la sua debole reggenza cessò: Federico,
orfano di entrambi i genitori e posto sotto la tutela pontificia visse tutta
l’amarezza consapevole d’una terra ridotta a terreno di aspro scontro fra
pretendenti alla successione normanna, Legati papali, Feudatari tedeschi e
nobiltà a vario titolo.
Dopo anni di difficili ed aspre vicende, aggravate dalle ambiguità
politiche della Curia Romana, la tutela dell’energico Innocenzo si concluse.
Era il 1206: lo Staufen, secondo consuetudine considerato maggiorenne,
veniva insediato al trono.
Pressocché contestualmente ed in danno dei suoi interessi dinastici in
Germania, il Papa si era accordato con Ottone di Brunswick fomentando quella
rivalità fra guelfi e ghibellini apertasi con una duplice elezione e
conclusasi con la tragica morte di Filippo di Svevia.
A Spira ed in cambio della legittimazione imperiale, Ottone aveva
promesso alla Chiesa le recuperazioni nella Marca di Ancona, parte della
Romagna, il Ducato di Spoleto e la Signoria sul Regno di Sicilia. Ma, ad una
manciata di giorni dalla sua incoronazione, tradì i patti ed invase la parte
continentale del regno meridionale, mirando ad accorpare la Sicilia
all’Impero ed a liquidare Federico II, ultimo membro della invisa casata
staufica.
Il Papa, truffato da un guelfo, impugnò lo strumento della scomunica e,
sciolti i sudditi dal vincolo di fedeltà, depose Ottone ricorrendo
all’alleanza della Lega Toscana ed alla solidarietà francese.
Il conflitto assunse implicazioni internazionali, ponendosi come
regolamento di conti di una annosa vicenda legata al possesso delle Fiandre,
fra la Francia di Filippo Augusto, schierata in difesa degli interessi del
giovane Staufen, e l’Inghilterra di Giovanni senza Terre, a sostegno delle
posizioni del Brunswick.
La fazione ghibellina tedesca non perse tempo: offrì la corona di
Germania e dell’Impero al giovane Federico II, col paradossale ed
ineludibile appoggio della Chiesa costretta a sostenere un membro della
odiata casata sveva ma sottesa a parzialmente tamponare il danno, attraverso
le nozze del giovane re siciliano con la cattolicissima Costanza d’Aragona.
Nel 1214, la imponente e grandiosa battaglia di Bouvines portò la
Germania alla auspicata pacificazione: Federico II di Hohenstaufen, figlio
della superba regione di Svevia; erede della gloriosa stirpe salica;
rappresentante della prestigiosa casata staufica veniva incoronato previo
impegno a mai riunire la corona tedesca e quella siciliana; a garantire alla
Chiesa la sospensione di ogni abuso contro la libertà elettiva dei vescovi;
a rinunciare ai diritti di regalia e di spolia; a riconoscere la forma più
ampia di giurisdizione ecclesiale in materia spirituale e, soprattutto, ad
assegnare al Papa il possesso dei territori da Radicofani a Ceprano, della
Marca di Ancona, del Ducato di Spoleto, dei beni matildini, della contea di
Bertinoro, dell’Esarcato di Ravenna, della Pentapoli – Rimini, Pesaro,
Fermo, Senigallia ed Urbino- e dell’alta sovranità sulla Corsica e sulla
Sardegna.
Pressocché ventenne, Federico II era re di Sicilia, di Germania, dei
Romani e candidato all’Impero.
Sull’esempio del padre, aveva già assegnato al primogenito Enrico, come
concessionario del Papato, tutti i territori del regno. Tale atto si rivelò
foriero di una acuta lungimiranza politica e premessa a quella assolutistica
concezione del potere che lo contrappose ai diritti dei feudatari maggiori,
vanificando le libertà da costoro conseguite a Legnano ed a Costanza e, ben
presto, anche ai privilegi ed all’autorità della Chiesa.
A Magonza aveva promesso che avrebbe vestito i panni crociati per
liberare la Terra Santa, in esito ai risultati catastrofici in essa
conseguiti da Andrea d’Ungheria, Leopoldo d’Austria e Giovanni di Brienne.
Ma l’impresa fu a lungo procrastinata ed Onorio III, succeduto ad Innocenzo,
si diede ad esercitare forti pressioni perchè l’impegno fosse onorato.
In sostanza Federico, chiamato a misurarsi con un ventennio di disordini
ed anarchia in Germania quanto in Italia, aveva barattato con
l’incoronazione imperiale le aspirazioni papali lungi dal pensare di
assecondarle. Ma nel 1225, Onorio lo pose alle strette: dopo averlo indotto
a seconde nozze con Isabella Jolanda di Brienne, regina di Gerusalemme, lo
minacciò di anatemizzarlo ove non fosse partito crociato entro il termine di
due anni.
La morte mandò in fumo i progetti di Onorio, ma l’ascesa di Gregorio IX
al soglio pontificio inasprì i rapporti fra Chiesa/Impero: Federico fu
costretto a partire da Brindisi, il diciotto settembre del 1227 e, benchè
un’epidemia sviluppatasi fra le truppe lo costringesse al rientro solo dopo
tre giorni di navigazione, il Papa non volle intendere ragioni: la
scomunica investì l’Imperatore il 29 settembre.
La reazione all’ingiusto provvedimento, contro il quale i Romani
insorsero costringendo Gregorio a fuggire da Roma, consistette nella revoca
imperiale delle concessioni fatte alla Chiesa, in particolare sugli
strategici territori matildini. Indi, indirizzato alle Corti Europee un
manifesto in cui evidenziava la animosità strumentale e pretestuosa del
Pontefice, nel 1228, con al seguito solo cinquanta galee, Federico partì
per l’Oriente, sconfessato dai vertici ecclesiali che inibirono ai cristiani
di seguirlo nel viaggio.
Sbarcato in Terra Santa e privilegiata la diplomazia rispetto alle armi,
malgrado l’accanito ostracismo del Patriarca di Gerusalemme, Federico
concluse con Malik-al-Kamil un armistizio di durata decennale, recuperando
alla Cristianità la Città Santa, Bethlemme, Nazareth e San Giovanni d’Acri e
promettendo di non fornire aiuti ai Principati di Tripoli ed Antiochia ove
essi avessero assunto atteggiamenti belligeranti nei confronti del sultano.
Nel duomo gerosolomitano, assistito da Hermann Von Saltza, Gran Maestro
dell’ Ordine dei Cavalieri Teutonici, lo “ scomunicato ”, che aveva guidato
con successo la crociata, si incoronò autonomamente con tale atto
sottendendo ad una diretta dipendenza da Dio del suo mandato.
Al rientro in Italia, lo attendevano grandi eventi richiedenti tutta la
sua rigorosa autorevolezza: Gregorio, sparsa la voce che egli era morto ed
invaso il Mezzogiorno, se ne era proclamato successore ed aveva promosso
anche in Germania dure rivolte dei feudatari.
L’ordine fu restaurato in pochi mesi ed il Papa, isolato dal contesto
politico internazionale e costretto ad accettare la pace di San Germano, nel
1230, sulla base dello Status Quo Ante, revocò la scomunica ordinando anche
all’intero Episcopato orientale di rispettare l’accordo stipulato nel 1229.
Finalmente Federico poteva dedicarsi alle faccende interne all’Impero,
applicando gestioni politiche differenziate: in Germania, alimentando forti
antagonismi, riducendone la pericolosità e rendendoli indipendenti dal
potere regio, favorì i grandi Feudatari anche ecclesiastici; in Italia,
adottando un regime assolutistico ed anticomunale contro il quale, nel 1229,
uscito dalla tutela, il primogenito agitò lo stendardo della rivolta fino a
costringere il padre ad un ritorno a marce forzate in Europa.
Esautorato, privato delle insegne e condannato al carcere a vita, Enrico
si vide sostituito dal novenne fratello Corrado, designato al trono e posto
sotto la tutela dell’arcivescovo di Magonza.
Federico aveva nel frattempo intrecciato una potente rete di parentele
contro le insurrezioni autonomistiche italiane: in particolare con Ezzelino
da Romano, signore della strategica Marca Trevigiana, e, di nuovo vedovo,
aveva contratto un terzo matrimonio diplomatico: questa volta la sposa era
Isabella d’Inghilterra.
Matteo da Parigi racconta: «... nel mese di febbraio del 1235, vennero a
Wenstminster due frati dell’Ordine Teutonico con soldati ed altri
ambasciatori, mandati dall’Imperatore dei Romani, Federico II al re
d’Inghilterra, portando una lettera con l’aureo bollo, nella quale domandava
in isposa la sorella di quel monarca, Isabella. Arrivati al cospetto del re,
il 23 febbraio, chiesero la risposta alla lettera, affinché potessero
prestamente darne notizia all’Imperatore, loro signore. Ma quel monarca
volle prima interrogare intorno a ciò i Vescovi e i Grandi del suo regno, i
quali, dopo avere accuratamente esaminata la cosa, tutti di unanime accordo
dopo il terzo giorno stabilirono che si desse la donzella a Federico. E così
il 27 febbraio Enrico III concesse agli ambasciatori di vedere la futura
sposa, mandando subito a chiamare Isabella che, con grandissime cure, veniva
custodita nella torre di Londra. Prestamente e con grande rispetto fu
condotta alla presenza degli ambasciatori e di Enrico III a Westminster la
fanciulla, che allora aveva anni ventuno, di grande bellezza e graziosamente
vestita degli abiti reali. E quelli poiché ebbero alquanto contemplato il
vago volto dell’avvenente giovinetta, che giudicarono degnissima di
Federico, confermarono il matrimoni, giurando sull’anima di Federico, a nome
del quale offrirono alla fanciulla l’anello nuziale...» (Historia Maior
Angliae).
Ma l’elemento più significativo del suo governo era consistito del
riordino dell’intero apparato amministrativo del regno. In questo spirito, a
Melfi nel 1231, alla presenza della nobiltà, della borghesia e dell’alto
clero, Federico aveva presentato le Constitutiones Regni Siciliae, fondate
sul rivoluzionario ed inaudito principio di uguaglianza di tutti avanti alla
legge: aure di tempi nuovi e recupero del diritto giustinianeo, per opera di
giureconsulti di Bologna e di Parigi e, in particolare, di Taddeo da Sessa e
Pier delle Vigne.
Il regno veniva, così, incentrandosi sull’elemento burocratico, ai cui
vertici spiccavano una Magna Curia o Tribunale Supremo della Giustizia ed
una Magna Curia Rationum o Corte dei Conti, il cui controllo era
rispettivamente assegnato al Gran Giudice ed ai suoi Giustizieri ed al Gran
Camerario ed ai suoi baiuli e funzionari a mansioni miste.
Fu in questa fase di centralizzazione anche militare che i saraceni,
solitamente turbolenti ma fedeli alla monarchia, furono trasferiti a Lucera
ed impegnati nelle più difficili e delicate funzioni di sorveglianza e
difesa del regno.
Melfi rappresentò la tappa fondamentale della storia del più grande
sovrano del Medio Evo, ma anche la più bruciante sconfitta della Chiesa che
era stata sottomessa alla giurisdizione del fisco regio ed inibita
dall’acquisto di beni, mantenendo la sola titolarità di competenza su
faccende religiose.
Melfi rappresentò, altresì, il grande crocevia della laicizzazione della
cultura italiana col grande impulso assegnato agli studi di medicina a
Salerno, di diritto a Napoli e poi di arte, poesia, letteratura, scienze
naturali, matematica, astronomia e filosofia.
Melfi, infine, segnò il lento ed irreversibile epilogo della destino
personale e politico di Federico II che, per aver definitivamente
ridimensionato lo strapotere della Chiesa, concorse alla formazione di un
granitico fronte di nemici: il Papato, i Feudatari, i Comuni.
La straordinaria vittoria conseguita a Cortenuova contro la Lega
Lombarda, il ventisette novembre del 1237; la seconda scomunica irrogatagli
il trenta novembre del 1238; il favorevole risultato dello scontro navale
della Meloria; la morte dello spietato e spregiudicato Gregorio, il ventidue
agosto del 1241; il breve ed insignificante pontificato di Celestino IV; la
irriducibilità di Innocenzo IV furono, pur nella alternità delle vicende, il
segnale di un doloroso decadimento in direzione della rinuncia: Federico,
sconvolto dai tradimenti, dai lutti, dalle congiure si avviò verso la fatale
e terza scomunica con la quale, nella seduta ultima del Concilio di Lione,
il diciassette luglio del 1245, il Papa lo bollò di spergiuro, di eresia e
di sacrilegio deponendolo dalla funzione e sciogliendo i sudditi dal vincolo
di fedeltà.
Le guerre violente fra Cancelleria Papale ed Imperiale; la crociata
antifedericiana condotta dai Francescani; la rivolta tedesca capeggiata dal
vescovo Sigfrido di Eppenstein; l’incoronazione dell’antire Enrico Raspe e
poi di Guglielmo d’Olanda; la drammatica disfatta di Vittoria, il diciotto
febbraio del 1248 ed il presunto cedimento di Pier delle Vigne, non
trovarono lenimento: il destino tragico dell’Imperatore che aveva incantato
i tempi e che ancora divide il giudizio degli storici, si compiva
inesorabilmente attraverso la cattura del prediletto figlio Heinz a Fossalta
e la morte di altri due rampolli.
Il tredici dicembre del 1250 Federico II, rientrato nel fertile e sicuro
grembo di Puglia, si spense, come le profezie avevano indicato, “ sub flore
”, a Castelfiorentino di Lucera, indifferente al dolore del mondo ghibellino
europeo e della affranta comunità saracena.
Il solare, ardente e passionale protagonista di trentaquattro anni di
regno destinati a contrassegnare la grandiosità d’un’epoca, usciva di scena
consegnando il Medio Evo ad una fase di rivisitazione delle esaltazioni e
delle umiliazioni dei giudizi.
Aveva vissuto la sua intera esistenza in piazza, consegnandosi fin dalla
nascita alla curiosità, all’interesse, alla ammirazione ed al disprezzo dei
suoi contemporanei ma mantenendo inalterata la coscienza del proprio dovere
trasformatosi in leggenda.
Aveva vissuto un’infanzia di drammatica solitudine, accentuata dai
tradimenti del suo collegio di tutela e dalla condizione di sofferenza del
suo popolo.
Aveva vissuto la limitazione affettiva di tre matrimoni dettati da ragion
di Stato, imparando a contare solo sull’amore dei figli, amati
struggentemente; degli amici, amati appassionatamente; dei sudditi, amati
strenuamente, subendo cocenti delusioni e tradimenti imprevedibili.
Aveva anteposto la sete di giustizia a qualsiasi compromesso politico.
Aveva proposto una religiosità intelligente, intensa, fiduciosa, profonda
e distante dagli stereotipi della religione del potere. Ed in coerenza con i
suoi principi, si era dato alla morte con l’abito penitente dei cistercensi.
Anticristo o Messìa?
Mito.
Eretico o cristiano?
Mito.
Stupor Mundi: aveva aperto le porte all’immagine illuminata del Principe
Rinascimentale.
Drang nach osten: la sua possente forza d’urto germanica, segnò l’Europa
del XIII secolo ma anche i destini dell’Italia Meridionale dei giorni
nostri.
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