di Ornella Mariani
Dai Canti Eroici dell’Edda emerge, nell’Atlakvidha, la fosca figura di Attila che, nel nostro immaginario, insiste dotato di un notevole quanto primitivo intuito politico e di una crudezza forse eccessiva anche per quei secoli di oscura barbarie.
Dagli scritti di Salimbene: «... Hic plus quam diabolus timebatur... Nec Nero in crudelitatibus similis ei, nec Domitianus, nec Decius, qui fuerunt maximis in tyrannis...», emerge quella non meno torbida di Ezzelino III da Romano, Signore della Marca trevigiana.
Di statura inferiore alla media; occhi ardenti come brace; volto sinistramente torvo; tenace, ambizioso, coraggioso, scaltro, crudele, brutale, cinico fino alla ferocia, egli fu personaggio politicamente ambiguo ma dotato di straordinario genio militare.
Per entrambi, la Chiesa ricorse alla definizione di Flagellum Dei.
Davvero analogie esistenziali e caratteriali saldano la memoria dell’uno all’altro, nella compiutezza di una tragicità in tema con il destino dei personaggi dell’Edda: riferimento di un Medio Evo pregno di passioni e suggestioni popolari oscillanti fra odio, ammirazione, terrore e sangue sullo sfondo di fanatiche superstizioni.
E se l’epilogo della vita dell’uno si consegnò alla storia con la drammatica battaglia combattuta dal generale romano Ezio, ai Campi Maurici nel 451, quello dell’altro si è scolpita nella memoria veneta il ventisette settembre del 1259, con la battaglia di Cassano sull’Adda.
L’uno è restato ancorato all’orgoglio nazionale ungherese. L’altro, più vicino nel ricordo delle gesta, è parte del bagaglio e del leggendario patrimonio del Nord/est italiano: entrambi oggetto di una propaganda storiografica di parte che confonde fantasia e realtà e che accomuna di disvalori i ricordi impedendo un giudizio scevro da animosità di parte.
La storia di Ezzelino III affonda radici nelle periferie a margine dei cupi boschi tedeschi. Da essi, nel 1173, il nobile Ecelo, capostipite della potente famiglia teutonico/veneta, imboccò la via dell’Italia, marciando al seguito dell’Imperatore Corrado.
Varcati i confini montani, si insediò in quella regione nella quale i suoi successori avebbero scritto le più discusse pagine della storia italiana dei secoli XII e XIII.
Ecelo divenne presto potente e, dopo averla fondata, si pose a capo della ricca Marca che lasciò in eredità al figlio Alberico.
Non costui, ma il suo successore: Ezzelino il Balbo, coraggioso condottiero delle legioni nordiche nella seconda crociata, nel 1147, fu il vero protagonista di quegli anni che videro l’Italia sede di turbolenze e di scontri fra le fazioni guelfe e ghibelline.
Forte di prestigio in tutta l’Alta Italia, egli estese i già ampi domini familiari e si pose in aperto e duro contrasto con l’Imperatore Federico il Barbarossa che sconfisse più volte, prima della conciliazione finale e del definitivo ripudio della causa guelfa. Morto nel 1180, alla guida della Marca gli subentrò Ezzelino II il Monaco, podestà di Treviso nel 1191 e di Vicenza nel 1193.
Furono anni oscuri: dominati da un governo contrassegnato da intrighi e congiure, fino ad aspre guerre contro il rivale Azzo d’Este, per il controllo della signoria.
Sposato ad Adelaide dei conti di Mangona; divenuto Vicario Imperiale di Ottone IV di Brunswick ed ampliati i propri confini, nel 1223 Ezzelino II divise il suo Stato fra i figli Ezzelino III ed Alberico. Indi, preda dei rimorsi per la sua violenta condotta, si ritirò in un convento ove nel 1235 finì i suoi giorni.
Alla guida dell’ampio territorio si pose Ezzelino III.
Incuneatosi nel conflitto fra Chiesa ed Impero, egli rafforzò la propria posizione di forza allargando ulteriormente i confini del suo Stato, per la difesa del quale non esitò a ricorrere a durissime e selvagge repressioni.
Era dotato d’una lunga esperienza contratta in campo quando, solo diciannovenne, in nome e per conto del padre, aveva connotato di sanguinaria furia il suo percorso politico e militare ponendo, nel 1213, in stato d’assedio il castello estense.
Ereditata la Marca trevigiana nel 1223, mentre il germano Alberico aveva assunto il controllo del vicentino, presto si era inserito nelle intricate vicende degli odi fra fazioni del Nord.
Com’era costume dell’epoca, anch’egli ritenne di risolverli con contratti matrimoniali: sposata Zilla di Sambonifacio, dette in moglie sua sorella Cunizza a Rizzardo di Sambonifacio ed un’altra giovane germana a Torello Salinguerra. Tuttavia non solo la pace non intervenne, ma si aprirono presto nuovi fronti interni di rivalità familiari che lo contrapposero duramente al suo stesso fratello.
Nel 1226, col favore dei Salinguerra e dei Montecchi, Ezzelino espulse dalla Marca proprio i nobili e potenti Sambonifacio, cui strappò la podesteria che già nell’anno successivo perse, poiché la Lega Lombarda, in tensione con Federico II, aveva ottenuto una pacificazione fra i partiti veronesi.
Ripresa Verona nel 1230, grazie alla consolidata alleanza con i Montecchi, Ezzelino fu nuovamente contrastato dai Lombardi e quando anche i padovani presero a disturbarlo si schierò con la fazione ghibellina, costringendo la città, nell’ aprile del 1232, a piegarsi ed a giurare fedeltà all’Impero fino ad ottenere, col definitivo abbandono della causa guelfa, il favore e le simpatie dell’Imperatore: in concreto, la ratifica dell’incarico di Capitano del Popolo in cambio della sorveglianza e della difesa di quella regione, porta d’accesso al Sacro Romano Impero, dalle incursioni lombarde. Indi, nel 1235, ricacciò Azzo d’Este a Rovigo.
Le orribili stragi legate alla presa di Vicenza ed all’assalto di Padova nel 1236, lo resero inviso e temibile, valendogli quell’infamante accusa di tiranno e l’odio degli ambienti di una Chiesa competitiva ed antagonista, sul terreno di interessi ed aspirazioni tutt’affatto spirituali. Tant’è: la implacabile ferocia filoimperiale di Ezzelino fu esaltata dalla campagna clericale di farneticazioni apocalittiche tipiche del tempo: il Marchese era stato concepito da un rapporto sessuale della madre, Adelaide di Mangona, addirittura con satana.
Rivale di Azzo d’Este, per il dominio di Vicenza, Treviso, Ferrara e per il controllo della Valle Padana, per alcuni anni Ezzelino amministrò fermenti e pressioni dei nemici interni ed esterni al suo Stato: i suoi territori, infatti, furono devastati dai mantovani, dai padovani e dai bresciani e la stessa Verona gli fu di nuovo sottratta su istigazione di Papa Gregorio IX.
Nel 1236, favorita dalla vicinanza delle truppe imperiali, finalmente la svolta: la battaglia contro i confederati lombardi si risolse con la conquista, l’umiliazione ed il saccheggio di Verona che fu consegnata all’Imperatore Federico II.
Nello stesso anno, per dirimere l’aggrovigliata faida familiare e proprio su suggerimento dello Svevo, il marchese dispose le nozze di Rinaldo, figlio del potente rivale estense, con sua nipote Adelaide, figlia del fratello Alberico.
Da quel momento, cominciò quella sua incontenibile ascesa che, in esito alla vittoria imperiale di Cortenuova del 1238, lo assunse come punto di riferimento politico e militare e come referente della più alta nobiltà imperiale dell’Italia settentrionale: un prestigio amplificato dal matrimonio contratto con Selvaggia, la figlia più cara allo Staufen.
La importante parentela lo impegnò in difesa della causa ghibellina prima durante l’assedio di Parma e poi nelle spedizioni lombarde e nell’occupazione di Trento: un’attività militare mirata a garantire la libertà di confine e di transito alle truppe imperiali.
Ezzelino era ormai incontrastato signore dei territori dal Brenta all’Oglio quando, nel 1249, vedovo di Selvaggia, passò a terze nozze con Beatrice di Buontraverso.
Anche da questa unione non nacquero figli e la sua posizione, dopo la morte del suocero, si fece sempre più precaria: nel 1254, fu scomunicato da Papa Innocenzo IV che, contro le sue efferatezze, bandì una durissima crociata sostenuta dai veneziani, intenzionati a prendere Padova.
Nel 1258, assieme ad Oberto Pallavicino, egli sembrò riprendere con padronanza le redini della ingarbugliata situazione politica della regione: sconfisse, infatti, i bresciani sull’Oglio e prese la città.
Si trattò di un risultato effimero, poiché neppure la intervenuta riconciliazione col fratello Alberico riuscì a ripararlo dalla catastrofe: i fedelissimi partigiani di Manfredi di Sicilia, Buoso da Novara e lo stesso Oberto Pallavicino, proditoriamente si erano, infatti, accordati con le consorterie guelfe isolandolo ed indebolendone la posizione.
Nella fase di appannamento del suo astro, anche il tentativo di prendere Milano si risolse in una cocente sconfitta politica: a margine della drammatica disfatta militare della battaglia di Cassano sull’Adda, Ezzelino fu ferito e catturato.
Deportato a Soncino, ove mantenne un fiero e sprezzante atteggiamento di distacco dallo spirito di rivalsa dei suoi avversari, vi si spense pochi giorni dopo, all’età di sessantacinque anni, stordito e poi finito da colpi di mazza.
«... disdegnò l’assistenza del medico come il nutrimento... dopo aver ancor più disdegnato la confessione e l’olio santo, perchè, disse, aveva una sola colpa di cui pentirsi, quella d’essersi lasciato vincere e di non potersi più vendicare. E rimandò il prete ...».
Poco più tardi, anche Alberico ed il resto della famiglia, ormai priva del suo energico polso, sopraffatti dalle insurrezioni, furono linciati a furor di popolo.
La saga dei nobili trevigiani, in conformità con le tradizioni epocali, si era consegnata alla tragedia e conclusa nel sangue dopo l’amara stagione dei tradimenti che nella sorte aveva accomunato il potente signore al suo mitico suocero.
Dante: «...E quella fronte c’ha’l pel così nero, è Azzolino...»
Lasciandosi guidare dagli astri e dalle profezie di Guido Bonatti e dell’arabo Paolo di Baghdad, Ezzelino aveva impostato il suoi metodi di governo sul motto che era stato anche del cognato Salinguerra: «Il cielo al Signore dei cieli, la terra ai figli dell’uomo.»
La domanda è più che mai attuale: fu un grande, o solo uno spietato tiranno?
Edizione
elettronica del 18.09.2003.
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