Cavalieri normanni tra mito e realtà *

di Giovanni Amatuccio


L’arrivo dei Normanni nell’Italia meridionale è stato a fondo analizzato dalla storiografia locale e nazionale. L’aspetto militare, però, non è stato mai affrontato in maniera approfondita, e i pochi accenni all’argomento hanno spesso privilegiato una visione celebrativa degli irruenti cavalieri venuti dal nord.

Tale visione si è fondata su di una lettura delle fonti storiche (cronache ed annali, spesso di parte normanna) che tendevano ad elogiare le virtù guerriere della cavalleria d’oltralpe; rendendoci scenari di battaglie nelle quali pochi uomini a cavallo pesantemente armati scompaginavano con le loro violente cariche miriadi d’avversari bizantini o musulmani.

Di certo l’arrivo dei cavalieri normanni nell’XI secolo nello scenario mediterraneo rappresentò un qualche sconvolgimento nel campo delle tecniche di guerra. L’ondata di giovani guerrieri provenienti dal nord della Francia (non solo dalla Normandia), frutto del surplus demografico che in tali regioni si era creato, assetati di terre e di conquiste, s’incontrò con una realtà locale composta da piccoli stati (principati longobardi, città-stato solo nominalmente dipendenti da Bisanzio) a corto di uomini d’arme. Le nuove braccia furono bene accolte dai signori locali che pensarono di usarle per risolvere i propri conflitti e quelli con l’Impero bizantino. Ma tale speranza si rivelò un’illusione in quanto i Normanni seppero ben presto passare dal rango di semplici mercenari a quello di protagonisti , capovolgendo in breve tempo il rapporto con i loro signori.

La lezione storiografia consolidata ha attribuito la ragione dei loro rapidi successi soprattutto a due fattori militari, del resto strettamente collegati fra loro : la superiorità nell’armamento e la superiorità tattica dovuta all’impiego della cavalleria pesante.

Questi due aspetti trovano, come già accennato, una conferma nelle fonti coeve sia latine (Amato, Gugliemo di Puglia, Malaterra) sia greche (Anna Commena), le quali descrivono i devastanti risultati delle cariche della cavalleria normanna sul suolo italico e sullo stesso territorio imperiale.

Con chiarezza e costanza emerge dalla lettura delle fonti che sempre, al di là d'ogni considerazione per le forze in campo o per la natura del terreno, sono i Normanni ad assumere l'iniziativa. Anche quando essi sono in manifesta inferiorità numerica, mai, nella descrizione delle battaglie, li si vede attendere l'attacco nemico sulla difensiva.

In Malaterra, in particolare, troviamo spesso delle espressioni che appaiono conformi a quelle d'altre fonti dello stesso periodo: i Normanni combattono sempre fortiter agendo, fortiter congredientes e lo scontro sembra di solito risolversi con una prima decisiva carica di cavalleria (in primo congressu). Ma è in Anna Commena, nelle sue descrizioni delle guerre combattute dal padre Alessio contro il Guiscardo, che si trovano i riferimenti più espliciti alla forza della cavalleria normanna e all’ "impressionante" armamento dei suoi uomini.

Non v’è dubbio che un fondo di verità si celi dietro tali roboanti imprese, ma alla luce delle più moderne teorie storiografiche sull’arte bellica del medioevo, i fatti vanno riportati ad una visone più realistica.

Per quanto riguarda gli armamenti, le testimonianze iconografiche meridionali risalgono prevalentemente al XII secolo e forniscono un quadro sostanzialmente identico a quello dominante nell’ Europa dell’epoca. E’ difficile sapere, invece, come fossero armati ed equipaggiati i primi gruppi di Normanni giunti in Italia nell’XI secolo. Le fonti scritte latine tacciono, mentre Anna Commena sembra delineare un’ immagine aderente a quella del famoso arazzo di Bayeux; rimane aperta però la questione circa le reali innovazioni che i Normanni avrebbero introdotto nello scenario mediterraneo. Emblematico è il caso del caratteristico "scudo a mandorla" o "ad aquilone", che fino a qualche tempo fa veniva ascritto con sicurezza nel novero delle "invenzioni" normanne, mentre di recente è stato sottolineato come esso fosse già usato dai bizantini a partire dal X secolo.

Per ciò che concerne, poi, la supposta irruenza ed invincibilità della carica della cavalleria normanna, vanno fatte una serie di precisazioni e distinguo. Innanzitutto, va chiarito che nel medioevo gli scontri campali erano solo un’eccezione rispetto alla regola che si fondava soprattutto sulla guerra d’assedio. La rete di castelli e piazzeforti rappresentava la struttura difensiva e di controllo del territorio e per il suo possesso si combatteva. Se ciò valeva per tutta l’Europa, valeva ancor più per l’Italia meridionale, dove esisteva un ricco tessuto di città fortificate retaggio della tarda antichità romana che i successivi invasori (goti, bizantini , longobardi) avevano rafforzato ed esteso. La conquista normanna fu segnata dagli innumerevoli episodi di assedi tesi a catturare le singole fortificazioni e le grandi città anch’esse formidabilmente fortificate. E’ superfluo sottolineare come in tali operazioni di assedio il ruolo giocato dalla cosiddetta cavalleria pesante fosse minimo, mentre il grosso del lavoro era fatto dai fanti, dagli arcieri, dagli uomini addetti alle macchine d’assedio ed alle mine; e gli stessi cavalieri erano costretti a combattere in tali frangenti soprattutto a piedi.

In definitiva si può affermare che nell'economia generale dell'andamento della conquista le grandi battaglie appaiono come episodi sporadici rispetto al gran numero di scaramucce, assedi e saccheggi che la caratterizzarono. Nei circa cinquant'anni durante i quali si svolse la conquista del Mezzogiorno d'Italia le fonti registrano con dovizia di particolari cinque grandi battaglie campali: le tre battaglie del 1041-42 in Puglia, la battaglia di Civitate e le due di Sicilia (Cerami e Castrogiovanni). A fronte di questi grandi avvenimenti le cronache e gli annali registrano decine e decine di scontri, scaramucce, assedi di piccole e grandi dimensioni quali quelli di Palermo, Bari e Salerno.

La forma peculiare della tattica normanna di solito non prevedeva un vero e proprio assedio, bensì una sorta di blocco della fortezza o città da conquistare, che si concretizzava con la costruzione di uno o più castelli di legno dai quali gli assedianti conducevano le operazioni di devastazione del retroterra nemico e d'interruzione delle linee di rifornimento: solo quando gli assediati erano ormai indeboliti dalla fame si passava all'attacco finale.

La costruzione di fortificazioni più stabili in muratura, seguiva di solito la presa di una città. Questa sembra essere un’operazione puntualmente attuata dal Guiscardo e da Ruggero, i quali preferivano oltre che occupare le piazzeforti già esistenti, crearne altre ex-novo, quasi come simbolo di affermazione del potere dei conquistatori, con lo scopo precipuo di garantire una stabile base operativa per le proprie forze posta al di fuori del centro cittadino - sentito ancora come territorio ostile - al fine di stabilire il controllo sulla popolazione.

La strategia della guerra di saccheggio, oltre che dal principio strategico di intaccare le risorse dell'avversario, era dettata anche dal bisogno di sostenere le armate in guerra che altrimenti sarebbero rimaste prive di rifornimenti. Le azioni di foraggiamento e di saccheggio coincidevano e ciò che per gli attaccanti era foraggiamento per gli attaccati diventava saccheggio. In tali azioni, inoltre, si rivelava il ruolo fondamentale della cavalleria, con l’apparente paradosso che in questi casi - al di là delle rappresentazioni oleografiche delle fonti che la volevano combattere sempre a viso aperto contro i propri avversari - si occupava, in realtà, di faccende molto più umili e sporche.

Va rilevato, però, che i Normanni meridionali dimostrarono ottime doti anche nella costruzione di macchine e d'ingegni d'assedio e in tale campo Malaterra ce li descrive come doctissimi artifices. Ma probabilmente essi non inventarono niente di nuovo data la già vasta esperienza nella poliorcetica sia dei Bizantini sia dei Longobardi.

Anche quando si combatteva in campo aperto, però, la cavalleria non era la sola arma dello scontro; anzi, questa a poco valeva quando i Normanni si trovavano di fronte forze di fanteria ben addestrate e determinate. Di qui la necessità di adottare altri schemi e tattiche: in primo luogo, l’uso della fanteria ed in particolare degli arcieri.

Su questo aspetto, purtroppo, dobbiamo lamentare il silenzio dei cronisti locali, che come i loro colleghi del resto d'Europa, a causa della loro propensione all'elogio encomiastico della "classe dei cavalieri", non rendono giustizia all’ effettiva composizione degli eserciti; citando i pedites sempre solo en passant e seguendo con la loro narrazione solo i milites o peggio ancora i loro capi.

Di certo, i fanti che componevano gli eserciti normanni dovevano essere soprattutto uomini reclutati in loco: la capacità dei conquistatori, infatti, fu proprio quella di riuscire ad aggregare sotto il proprio comando masse di uomini locali, affidando loro il considerevole ruolo di supporto di fanteria alla propria cavalleria pesante.

Il processo di reclutamento ed inglobamento delle forze locali, iniziato durante gli esordi delle imprese normanne nella regione, continuò fino a raggiungere la completa integrazione, ed in occasione delle prime grandi spedizioni d'oltremare, condotte da eserciti misti, si delineò la divisione tra l'elemento franco-normanno costituente il nerbo delle forze di cavalleria e quello indigeno che forniva la fanteria e i marinai.

Lo stesso uso della cavalleria, inoltre, andava ben al di là della semplice carica frontale, e prevedeva l’impiego di più accorte e prudenti tattiche quali attacchi sui fianchi, e manovre tese ad allentare e sfilacciare lo schieramento avversario. Infatti, l’attacco frontale presentava grossi rischi sia per il cavaliere che per il cavallo: bene quest'ultimo, di raro valore per il combattente, che difficilmente rischiava di perderlo senza una ragione precisa.

Una delle tattiche più usate era la cosiddetta finta ritirata , usata anche dai Normanni del nord ad Hastings. Nelle nostre fonti si trova traccia di alcuni esempi di tale tattica messa in opera dai Normanni meridionali: ad esempio, nell'azione di Ruggero contro Messina nel 1060, così descritta dal Malaterra: "primo timore simulato, cum eos longius ab urbe seduxisset, impetu facto, acerrime super eos irruens, in fugam vertit"; o a Castrogiovanni nel '63 quando Ruggero, ordinò ai suoi di mettere in atto un simulato timore per costringere i fanti musulmani a rompere i loro ranghi inseguendo i finti fuggitivi. La capacità di eseguire questo tipo di manovra, che presentava un notevole rischio di trasformare la ritirata da simulata in vera, era reso possibile solo da un certo grado di addestramento nel ritirarsi , raggrupparsi e riattaccare di nuovo. Tali capacità vengono riportate dai moderni studiosi come esempi di perizia tattica, in polemica con quanto sostenuto dagli storici militari degli inizi del secolo, che vedevano nelle armate medievali un'accozzaglia di uomini e cavalli senza ordine e disciplina, frutto di un'epoca nella quale il senso dell'arte militare classica era andato del tutto perduto e dove il modo di combattere seguiva impulsi istintivi, senza regole e disciplina.

In realtà i comandanti normanni sapevano bene applicare i due principi tattici fondamentali della condotta di guerra: dividere l'esercito in più piccole unità, schierandole in un determinato ordine, e mantenere la formazione di cavalleria il più possibile compatta. Ed infatti, un tipo di schieramento su due linee sembra venisse spesso usato, con una prima linea d'attacco e una seconda di rincalzo, mentre già nelle prime vicende della conquista i cavalieri appaiono organizzati in gruppi di 20-30 uomini raccolti sotto un vessillo e guidati da un unico capo.

Tirando le somme, dunque, si può affermare che negli eserciti dei conquistatori normanni i guerrieri montati certamente rappresentavano il corpo d'èlite degli eserciti medievali, ma così come i corpi d'èlite degli eserciti moderni hanno bisogno per funzionare del supporto degli altri corpi: fanti, genieri, artiglieria ecc. ecc. allo stesso modo i cavalieri avevano bisogno dell'esercito composto in gran parte da fanti, arcieri, balestrieri ecc. Lo stesso termine miles, che a torto viene sempre tradotto con "cavaliere", presumendo una piena corrispondenza tra uomo e cavallo, andrebbe più correttamente reso con "guerriero", inteso come uomo capace di combattere sì a cavallo, ma anche e soprattutto a piedi, sulle mura di un castello o su di una scala d’assedio, o anche in campo aperto schierato insieme a i fanti per dare a questi saldezza e coraggio; come accadde spesso sui campi d’Inghilterra e Normandia o nella battaglia dell’Olivento in Puglia nel 1041.

BIBLIOGRAFIA

Fonti:

  • Amato Da Montecassino, Storia de' Normanni volgarizzata in antico francese, a cura di V. De Bartholomeis, in Fonti per la Storia d'Italia,76, Roma 1935.
  • Anne Commène, Alexiade, a cura di B. Leib, Paris 1967.
  • Gaufridus Malaterra, De rebus gestis Rogerii Calabriae et Siciliae Comitis et Roberti Guiscardi Ducis fratris eius, a cura di E. Pontieri, in Rerum Italicarum Scriptores, V,1, Bologna 1927-28.
  • Guillaume De Pouille, La geste de Robert Guiscard, a cura. di M. MATHIEU, Palermo 1961.

Saggi:

  • G. AMATUCCIO, "Fino alle mura di Babilonia". Aspetti militari della conquista normanna del Sud, in "Rassegna Storica Salernitana", 30 (1998), pp. 7-49.
  • S. BACHRACH, On the Roman rampart, in Cambridge Illustrated History of Warfare. The Triumph of the West, a c. di G. Parker, Cambridge 1995.
  • E. CUOZZO, "Quei maledetti Normanni". Cavalieri e organizzazione militare nel Mezzogiorno normanno, Napoli 1989.
  • D. C. NICOLLE, Arms and armour of the crusading era : 1050-1350 , 2 voll., New York 1988.

(*) Saggio pubblicato in forma elettronica per concessione dell'Autore, tratto dal libro: AA.VV., Normanni del Sud. Salerno-Bari 999-1999, a cura del FAI, Mario Adda Editore, Bari 1999.



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